Disintegrati by Elisabetta Votta

Disintegrati by Elisabetta Votta

autore:Elisabetta Votta [Votta, Elisabetta]
La lingua: ita
Format: epub
ISBN: 9788833466637
editore: Ali Ribelli Edizioni
pubblicato: 2020-07-20T22:00:00+00:00


2 H.J. Grossman, Manual on terminology and classification in mental retardation, American Association on Mental Deficiency, Washington 1973.

3 R. Mocciaro e R. Manasse, L’isola raggiunta, Spazio Comune Edizioni, Roma 1988.

Il tè delle cinque

Suonavo ripetutamente il campanello già da un quarto d’ora, ma nessuno veniva ad aprire.

Caspita, già le quattro e un quarto!

Eppure lo sapevano che dovevo venire a quest’ora, pensavo.

Dopo altri dieci minuti di attesa avevo deciso di provare un’ultima volta e poi andarmene, al diavolo i signori Rossi e la cooperativa, ma all’improvviso la porta si era aperta ed era apparsa una bella signora visibilmente seccata che mi aveva apostrofata dicendo che ero in netto ritardo e che potevo anche andarmene. Inutile era stato il mio spiegare che da circa mezz’ora stavo suonando, da accusatrice ero diventata accusata e avevo una sensazione di incredulità e di sgomento.

Mi avevano spiegato che dovevo essere diplomatica, per cui non avevo insistito più di tanto.

Dalla stanza in fondo al corridoio sentivo una canzone di Cristina D’Avena e in pochi minuti mi ero ritrovata addosso una ragazzina di circa dodici anni, magrissima e ben vestita che mi prendeva la mano e mi rimbambiva di parole.

Questo era stato il promo incontro con la famiglia Rossi e in particolare con Cristiana, la ragazza che dovevo seguire per tre pomeriggi alla settimana, che non aveva dodici anni, ma venti. Avevo capito subito che non era lei il problema con cui dovevo confrontarmi, ma la madre, di cui la figlia era la commovente appendice.

La casa era grande, silenziosa e piena di mobili alti. Si respirava benessere materiale, ma non c’era vita: apparteneva a madre e figlia in una relazione cristallizzata e sclerotizzata, fuori dal tempo e dal mondo. Il vezzo di disprezzare per non sentirsi feriti o compatiti, di non legarsi per non essere abbandonati, il non chiedere che conteneva un bisogno forte.

Si giocava tutto su una relazione ambivalente in cui io stessa, per avere, dovevo far vedere di non desiderare e minimizzare.

Meccanismi di difesa. Disperazione. Dolore.

Ho imparato la pazienza nei lunghi pomeriggi trascorsi in quella casa, il significato del piccolo gesto, la gentilezza che serve a costruire una cornice necessaria in cui inserire una vita che per essere degna di essere vissuta deve avere almeno il conforto del bello e delle abitudini.

Madre e figlia spesso erano vestite uguali, con abiti firmati e di buongusto, e nell’una potevi leggere gli atteggiamenti dell’altra. Da spettatrice percepivo questo rapporto come totalizzante, mirante a creare un guscio protettivo per entrambe e soprattutto per Cristiana, a cui imprecisate circostanze avevano regalato un’eterna infanzia.

Ritardo mentale grave, cervello bambino, corpo adolescente, una dipendenza totale con cui fare i conti.

Tutto ruotava attorno all’accudimento della “bambina”: non c’era più il lavoro, gli amici, il marito, per Clara. Vite intrecciate e legate indissolubilmente, una madre che non poteva essere nient’altro che madre, una figlia per sempre, un marito scappato via perché da lontano è più facile sopportare il dolore.

E un figlio maschio invisibile, sempre al secondo posto.

Per cinque anni ho cercato di fare senza fare, dire senza dire.



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